Louis C.K., Kevin Spacey e gli altri: quello che rimane

Perché questa non è una caccia alle streghe.

 

Come femminista e attivista, la mia reazione di indignazione, delusione e sconcerto di fronte al crescente numero di accuse rivolte ad attori, produttori e autori di Hollywood è enorme e quasi scontata, così come il mio incondizionato supporto a tutt* coloro che nelle scorse settimane hanno scelto di parlare, denunciare e verbalizzare una serie di molestie e abusi che fino a qualche tempo fa erano scontati quanto la nostra indignazione al sentirne parlare oggi.

Come studiosa di letteratura e storia ho anche (e purtroppo?) una certa esperienza nell’esercizio di separazione del giudizio, nel prendere le parole e le azioni e analizzarle senza l’enorme, irriducibile peso del conoscere in modo dettagliato chi le ha scritte o eseguite, in nome del piacere inesprimibile della metrica e dell’imperfetta trama di conseguenze della storia.

Queste due anime, l’attivista e la studiosa, riescono a trovare una mediazione solo grazie a un costante e faticoso esercizio del pensiero, al quale vanno a sommarsi la mia personalità cinica, il mio senso dell’umorismo fortemente attratto dalla decadenza umana, i miei obiettivi e il mio lavoro, così che spesso è facile cadere, per stanchezza o pigrizia, nella trappola rassicurante del mero piacere visivo o letterario. Ecco perché il caso di Louis C.K. mi colpisce profondamente, mi indigna e mi incuriosisce allo stesso tempo: perché è una questione di abuso di potere, certo, ma è anche una questione critica, teorica se vogliamo, perlomeno perché data la natura letteralmente cinematograficadi tale cronaca e dei suoi protagonisti, anche la mia riflessione su di essi non riuscirà a slegarsi dalle loro opere.

Preciso questo perché vorrei dichiarare, una volta per tutte, che separare l’opera da chi l’ha creata è una crociata insensata e di comodo. Ancora più banalmente, separare il messaggio dall’emissario ci serve solo a fare l’analisi grammaticale, a confondere l’autonomia con il razzismo, a restare umani ma sempre ironici, è un esercizio intellettuale che non serve a molto quando il soggetto del discorso (che può essere la cultura dello stupro, il privilegio o l’abuso di potere) è una questione politica che coinvolge esattamente il 100% della popolazione sul pianeta. Lo dico con la consapevolezza di sembrare fuori moda: mantenere un legame tra opera e persona, tra chi ha detto cosa e cosa è stato detto, è prima di tutto un esercizio di resistenza.

E quindi torniamo a Louis C.K., del quale fino all’altro giorno ho visto ogni spettacolo, serie TV e cameo. Non nego di aver sempre seguito con interesse il lavoro di C.K., e che esso mi è parso sempre coerente, divertente e malinconico. La comicità di C.K. sta (stava?) nella sua mediocrità di essere umano e nello scarto scherzoso-deprimente che sapeva prendere nel momento più inaspettato. Ho letto molti tweet in questi giorni affermare che il lavoro di C.K. sia sempre stato disgustoso, poco divertente e per nulla intelligente, ma la verità è un’altra ed è proprio questo il punto: Louis C.K. è un ottimo stand-up comedian che ha fatto grandi cose. La serie tv Louie è probabilmente uno dei punti più alti in questo senso, e il modo in cui è riuscito a tratteggiare l’inadeguatezza di un maschio bianco di mezza età con le proprie figlie, nelle relazioni con le donne e nella vita in generale è stato un lavoro originale e intelligente di descrizione della vergogna e delle parti più comico-disgustose di sé. Se C.K. si fosse fermato qui non ci sarebbe nulla da scrivere per me oggi, e lascerei la parola ai critici cinematografici. Ma il problema è un altro: il problema è che C.K., oltre ad aver scritto serie tv e spettacoli meravigliosi, ha anche molestato sessualmente numerose donne, che per questo motivo l’uscita del suo film è stata annullata e — arriviamo al punto — questo ha provocato una grande indignazione tra i fan. Allo stesso modo Kevin Spacey, dopo le accuse di molestie sessuali ai danni di un minorenne, è stato rimosso da una delle più importanti produzioni di Netflix, House of Cards, della quale era perfino protagonista. Altra ondata di indignazione: ce la farà Robin Wright/Claire Underwood a far proseguire una serie che non era incentrata su di lei sin dall’inizio? Che cosa sarà di HoCora che Spacey è stato cacciato? C’è il pericolo di una settima stagione mediocre, raffazzonata e poco coerente con le precedenti.

Va da sé che tale indignazione non tiene minimamente conto del fatto che ci sono persone che da Spacey e C.K. sono state molestate. Va da sé che questa indignazione è dunque in nome dell’arte, di un’arte slegata dalla realtà, pura finzione.

Il ragionamento è fallace sia perché Spacey e C.K. (ma anche Allen, per citare un altro preferito), non hanno mai fatto mistero del legame con i propri personaggi — ma apriremo il capitolo psicanalisi in un altro momento — sia perché questa indignazione vorrebbe colonizzare anche chi non è indignato. Vedono un’arte censurata, non vedono una casa di produzione cinematografica in difficoltà con il proprio audience che non è fatto, ma guarda un po’, di soli maschi bianchi; vedono il proprio privilegio di godere in modo acritico messo al bando, non vedono le cose che cambiano. Netflix non ha licenziato Spacey per fare un favore alle persone molestate: mi stupisco che nessuno degli indignati sia mai riuscito ad arrivarci finora. Netflix è un’azienda miliardaria che ha evidentemente agito conseguentemente al proprio interesse. Quale? Quello di avere più utenza possibile. Perché? Perché l’utenza è cambiata e servono nuove storie.

Mi sono chiesta spesso se la mancanza di indignazione nei confronti delle donne molestate e abusate sia frutto di una reale mancanza di conoscenza dei dati sulla frequenza delle molestie ai danni delle donne (e delle persone omosessuali e transgender) o se sia invece un consapevolissimo glissare su dati ben noti. Forse dovremmo lanciare un #metoo sui peni che non volevamo vedere e ci avete fatto vedere lo stesso, perché diciamo le cose come stanno: non conosco donna o ragazza alla quale non sia capitato almeno una volta nella vita di vedere un pene non richiesto. La cosa grave è che questa affermazione potrebbe quasi far sorridere chi non è in grado di soffermarsi qualche secondo in più su di essa per soppesarne l’inquietante conclusione.

E quindi che cosa resta? Quello che resta è paradossalmente ciò che è sempre restato: una classe di maschi bianchi eterosessuali in grado di scrivere e dire ciò che vuole, sebbene sempre meno al passo con i tempi, sempre più inadeguata, al punto da sfiorare il ridicolo sempre più spesso e in modo sempre più eclatante. Resta che evidentemente questo tipo di autori, attori e artisti non bastano più. Non solo: non bastano le storie che raccontano, storie che sono solo per alcuni e non per tutt*.

Resta tuttavia la non ammissione di colpa di tale classe: Louis C.K. è stato il primo a dire queste accuse sono vere — e prendo atto della storicità dell’evento — eppure permane un atteggiamento generale che va dal “non tutti gli uomini fanno questo” al “non possiamo giudicarlo per questo”, atteggiamento che sorprendentemente non compare quando si parla di questioni storiche e sociali come il razzismo, la schiavitù, il precariato, le questioni ambientali, e tutti i temi cari ai tanti uomini di sinistra che conosco e ammiro. Solo la questione del privilegio di genere rimane un tabù, e se le femministe parlano di intersezionalità sorridono, perché è una cosa che non li riguarda. Loro non sono molestatori ma nemmeno osano prendere le parti delle vittime, a meno che non accada qualcosa alla sorella/figlia/fidanzata. Non certo all’attrice sulle cui foto leakate ci si è masturbati fino all’altro ieri. E’ una questione di merito e innocenza: se sei nuda significa che ti sei spogliata e quindi è anche colpa tua.

E’ una crociata a doppio senso: da un lato la strenua difesa di prodotti non più in grado di rappresentare il mondo, dall’altro la completa non ammissione di responsabilità per tale mancanza di rappresentazione. E’ qualcosa di sottile, la complicità.

Quello che resta, fortunatamente, è anche che ad un numero sempre crescente di persone non bastano più le storie di questi uomini di mezza età inquieti e immaturi, goffi eppure affascinanti, mediocri eppure originali. Una scelta artistica che qualche anno fa poteva essere nuova e interessante è invecchiata, e i suoi autori con essa: a volte capita che alcuni prodotti invecchino male, e che i fan non lo accettino. E’ dura, ma bisognerà farsene una ragione.

Quello che rimane è la necessità di storie nuove, e questo è difficile quando la maggior parte degli intellettuali e degli autori che se ne occupano non solo non sa chi siano, per esempio, bell hooks, Justin Chin, Toni Morrison o Kathy Acker, ma opera più o meno inconsapevolemente secondo il proprio privilegio per relegarli a studi minori. Come afferma Michael Kimmel in Privilege: A Reader:

Qualsiasi corso universitario che non abbia nel titolo le parole ‘donne’, ‘gay’ o ‘minoranze’ è un corso sugli uomini, eterosessuali e bianchi. Ma i titoli di questi corsi sono “letteratura, “storia” o “scienze politiche”. Quest’invisibilità è politica.

Senza entrare nel merito di questioni che non appartengono del tutto allo scopo di questo articolo, ciò che colpisce è la vastità di tale invisibilità, resa ufficiale dai programmi accademici, e, quel che è peggio, interiorizzatadall’utenza di tali programmi, un’utenza intellettuale, di lettori e lettrici forti, woke, etc., che di conseguenza ha come riferimenti principali Infinite Jest e Philip Roth e non ha mai sentito parlare di James Baldwin, per esempio. Io stessa posso contare sulle dita di una mano le volte che i miei studi universitari mi hanno permesso di venire a contatto con opere scritte da persone non bianche, non eterosessuali, non di genere maschile. Un paio di volte grazie a un professore particolarmente illuminato, la terza per mia iniziativa. Negare che esista questa invisibilità all’interno dei luoghi di studio che dovrebbero essere sede di conoscenza e libertà di pensiero è, ancora una volta, una sottile complicità allo status quo e al mantenimento del privilegio, sia esso anche solo di rappresentazione.

Quello che rimane è, di nuovo, quello che è sempre stato: le voci di chi per secoli ha parlato della propria oppressione, l’ha messa in rima o in scena o in parole, e proprio per questo è stato congedato, rimosso, licenziato, oppure educatamente relegato a opera minore, ombelicale, sanguigna da critici che forse hanno letto Gramsci ma forse no, e hanno deciso che cosa secondo loro era arte e che cosa non lo era, lasciando da parte tutto il resto. E’ interessante soffermarsi a riflettere su questo per un attimo, perché appunto questa non è una questione di arte bensì di potere. Harvey Weinstein non operava sul piano dell’arte, ma su quello del potere. Trattare la questione del licenziamento dei molestatori come un caso di censura senza tenere conto delle implicazioni politiche ed economiche naturalmente connesse con il mondo delle produzioni hollywoodiane è estremamente miope.

In un bellissimo articolo sul New Yorker, la critica televisiva e vincitrice del Pulitzer Price for Criticism Emily Nussbaum affronta la questione dell’eredità artistica di Louis C.K., sottolineando il nesso inquietante tra l’atmosfera di vergogna e tabù che illuminava la comicità di C.K. e la reale storia raccontata dalle sue vittime. Nussbaum sostiene che prima di parlare di arte bisognerebbe ascoltare le storie che quelle donne hanno portato alla luce.

Mi permetto di andare oltre: possiamo ancora parlare di arte, a patto che l’arte torni a rappresentare il mondo. Non il pezzettino bianco e ricco di esso.

Ciò che è accaduto negli ultimi mesi non è stata una sterile polemica su Facebook e Twitter a colpi di hashtag e accuse: è stata una battaglia importante, seppur altolocata, tra chi detiene il potere e chi ne subisce gli effetti, e ha avuto sorprendentemente un esito positivo: delle donne vittime di violenza sono state ascoltate e dei molestatori seriali sono stati licenziati. Possiamo piangere la fine di queste carriere, possiamo scegliere di boicottare Netflix e la nuova stagione di House of Cards, certo. Oppure possiamo scegliere di ascoltare storie nuove. Possiamo provare a vedere cosa sarà di Claire Underwood, per esempio; possiamo provare ad ascoltare voci diverse, a fruire di un’arte differente da quella a cui siamo abituati, metterci nei panni di chi ha dovuto subirla, per decenni, per secoli, e possiamo provare a capire cosa significa un mondo di voci diverse.

Un’ultima cosa: leggo numerosi commenti di maschi indignati che parlano di caccia alle streghe. Vi esorto a usare un modo di dire diverso. La caccia alle streghe c’è stata ed è stata una persecuzione ai danni di decine di migliaia di donne che non si conformavano al canone dominante, non sposate, anziane, poco o per nulla religiose, non eterosessuali. Queste donne furono accusate di aver fatto un patto col diavolo e bruciate sui roghi, picchiate, messe in carcere. E’ stato uno dei primi momenti nella storia di controllo dello stato sul corpo delle donne e sulla loro posizione sociale (erano guaritrici, ostetriche, medici). Quindi no, le accuse di molestie e violenze di questi mesi non sono una caccia alle streghe: però vi staneremo tutti.

(Pubblicato su Medium.com)

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